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Il Governo Berlusconi, lo sanno tutti, è un governo di sinistra, a dispetto di quei 19 milioni di italiani di destra che l’hanno votato. E non perde occasione di dimostrarlo. Così, dopo tante battaglie vittoriose, l’esercito di Robin Hood si è scagliato contro i precari, quei 2 milioni di ricchi sfondati che lavorano un mese sì e uno no, a seconda delle esigenze dell’aziende e che quindi passano molto tempo a oziare e a sbeffeggiare i lavoratori indefessi, come i proletari del Billionaire. Questi nemici del popolo infatti erano vergognosamente tutelati dalle norme varate dai precedenti governi di centro sinistra (che, lo sanno tutti, pensano solo a ricchi banchieri e a manager in carriera), norme  che prevedevano, in caso di abuso di ripetuti contratti a termine non regolari rispetto a proroghe e motivazioni del prolungamento, che il precario potesse ricorrere dal giudice e ottenere anche l’assunzione a tempo indeterminato. Una vergogna! Per fortuna, ci hanno pensato loro, con un emendamento anti-precari  che elimina questa facoltà e consente al giudice di stabilire, al massimo, una sanzione di poche migliaia di euro e nega persino al precario la possibilità di riaccedere almeno al contratto a termine. Immaginiamo ora quanti di questi oziosi precari si rivolgeranno al giudice, per ottenere, se va bene, qualche mese di stipendio, in cambio dell’assoluta certezza di non essere più assunti neanche per sbaglio. Così saranno precari, precari per sempre. E la smetteranno di prendere in giro quei poveracci con la Ferrari che girano affaccendati per le città. Insomma, proprio una norma di sinistra, anzi di più: una norma sinistra. Infatti Confindustria, nota associazione rivoluzionaria, plaude al provvedimento, così come le Poste, che l’hanno caldamente sponsorizzato avendo circa 25 mila contenziosi in atto con precari impiegati e postini. Perché, si sa, i postini suonano sempre due volte (a volte, anche 3 o 4): con un contratto a termine. Ma qualcosa deve essere andato storto. Forse un po’ d’anima conservatrice che risiede, malgrado gli sforzi di Tremonti e Berlusconi, nel PdL. E così, Maurizio Sacconi, Ministro del Welfare e anche il Ministro della semplificazione Roberto Calderoli hanno sconfessato la norma, che per loro non va bene: forse è troppo di sinistra! E hanno preso le distanze: questa norma non è del Governo, è frutto della volontà del Parlamento. Che difatti, come sanno tutti, è occupato da manipoli di marxisti-leninisti come Maurizio Gasparri, Italo Bocchino, Lamberto Dini, e soprattutto Gianfranco Conte, Presidente della Commissione che ha introdotto l’emendamento, e i due proponenti Marco Marsilio e Massimiliano Corsaro (entrambi di AN, noto partito bolscevico). E’ una lotta senza quartiere dentro il PdL, stretto dalle accuse di Sindacati e opposizioni. Le polemiche impazzano. E il Governo si è diviso in due: Brunetta, Calderoli, Sacconi da una parte, Tremonti (che difende la manovra e non vuole nessuna modifica) dall’altra. In due? Speriamo si riuniscano presto, un Governo Berlusconi basta ed avanza. Due, chissà cos’altro sarebbero capaci di combinare!
Buon tutto!
Per i nostri affezionati 36 piccoli lettori: siamo in trasferta e abbiamo qualche problema di connessione. Ma proviamo comunque ad esserci. Se vi va, da queste parti, quando volete. E’ sempre un piacere!

Che Governo serio ed affidabile c’è oggi in Italia! Che bravi i nostri governanti! Pensano sempre a noi, al nostro benessere, alla nostra salute. Mica come quelli di prima, che pensavano solo a come studiare nuove tasse per darci dei dispiaceri. Questi le tasse le tagliano, anche se non se ne accorge nessuno, neppure loro. Perché loro non pensano a fare gli annunci, ma operano in silenzio. E su un altro fronte operano, silenziosamente ma alacremente. Un fronte fondamentale. La salute. Eh sì, perché su tutto si può discutere, ma la salute innanzi tutto. Non si dice così? E sulla salute, il nuovo Governo ha le idee molto chiare. Prima ha strappato il Patto per la Salute sottoscritto con le regioni, riducendo le risorse per la Sanità. Lo ha fatto per il nostro benessere, naturalmente, anche se quei bricconi dei Governatori delle Regioni, Formigoni in testa, si sono arrabbiati tantissimo. E adesso, con un semplice tratto di penna, ecco che viene cancellato un Decreto del precedente Governo  che stabiliva quali fossero i Lea, i “livelli essenziali di assistenza” per la sanità, la lista delle cure gratuite da garantire in ogni Regione. Non verranno più garantite dal Sistema sanitario cose indubbiamente marginali: il vaccino contro il tumore all’utero, gli apparecchi a chi non riesce più a parlare e a sentire; il riconoscimento di 109 malattie rare, l’assistenza per i malati di Alzheimer, l’assistenza domiciliare ai malati terminali

. Cose di cui usufruiscono solo i ricchi sfondati. E si sa, questo è un Governo che pensa al popolo, ai poveri, mica a i banchieri, come il precedente Governo Prodi. Tra i Lea revocati c’è anche il Parto indolore. D’altronde, non si dice: Partorirai con dolore? Ma che pretendete? E poi, la revoca è dovuta, ha detto il Governo. Mancavano gli   800 milioni di copertura finanziaria. Quelli che si sono trovati per permettere ad amici e parenti di avere l’Alitalia in regalo, ad esempio. Ma mica si può accontentare tutti! Stanno comunque lavorando per rielencare le cure sulla base delle risorse a disposizione. Insomma stanno continuando a lavorare per noi. Meno male. E’ bello sapere che c’è un Robin Hood che ci governa, che pensa sempre ai poveri e studia ogni giorno provvedimenti come questi, per stangare tutti i ricconi che si annidano tra i malati di Alzheimer, e soprattutto contro queste donne di oggi, che pretendono di avere gratis l’assistenza contro il cancro dell’utero. O, peggio, che pretendono di partorire senza soffrire nemmeno un po’! Scostumate! E poi, di che si lamentano? Questo è un Governo delle libertà, mica proibisce a nessuno di continuare a vaccinarsi, o di ricorrere all’epidurale. Solo, giustamente, bisognerà pagarsela. Il lusso si paga, nella Foresta di Sherwood. Altrimenti arriva Robin Hood- Giulio Tremonti. Che deve stare attento, però..Nei giorni di sole, sotto la calzamaglia, si vede scintillare una stella. Quello dello Sceriffo di Nottingham.
Buon tutto!

Ci sono giorni in cui l’estate ti regala serate fresche e ventose. E così, seduto nel giardino di casa tua, lasci che il vento e un buon bicchiere di vino cullino i tuoi pensieri. In questi momenti sul limitare del sonno la mente vola verso ricordi e pensieri senza meta. E mi è venuto in mente mio nonno Latino. Lui era un ragazzo del ’99, uno di quelli che da tanti paesi (Siciliani, Calabresi, Lombardi, Toscani, Friulani) a 18 anni ha combattuto nella grande guerra del 15-18. Lui era lassù, a Vittorio Veneto, nel 1918, con lo sguardo smarrito alla ricerca del suo amore lontano, mandato sui monti a combattere, forse senza sapere bene perché. Mi ricordo che nel suo cuore di ragazzo smarrito c’era il pensiero di Venezia, che era lì, a pochi chilometri. La  Venezia di cui aveva sentito parlare, a volte, da qualcuno nei suoi monti dell’Umbria, una città che non avrebbe mai visto. Non so se mio nonno sapeva che a Venezia tanti ragazzi di vent’anni come lui erano caduti, durante l’assedio alla città, nel 1849, massacrati dall’esercito austriaco, con il sangue che macchiava il Canal Grande. Non credo che conoscesse quello che resta di loro, una canzone lontana e dimenticata. E certo mio nonno non sapeva che poco lontano, in un’altra città di quello strano paese in cui si era trovato a combattere, Brescia, altri giovani avevano combattuto  per dieci lunghissime giornate, nella primavera di quel 1849. Non sapeva mio Nonno, che stava facendo la Storia. edio alla città, nel 1849, nni caddero lla splendida città, venezia,a. riE mentre ripenso a quei giorni lontani, a quei ragazzi ammazzati sul selciato, o sperduti tra i monti, un altro bicchiere mi aiuta a ricordare di altri ragazzi che morirono anch’essi nelle sere calde di Roma, nel luglio del 1849, i loro corpi abbandonati sul Gianicolo. Erano tanti, e venivano da tanti paesi diversi, come quelli del 1918. E tra loro, un ragazzo di Genova, di 22 anni, Goffredo. Era morto anche lui così, come si muore a vent’anni, con il cuore  pieno di quella gioia di vivere e la sensazione di aver tutto ancora da fare, con tanto tempo davanti per inseguire i tuoi sogni. Sogni che Goffredo aveva scritto in una piccola poesia senza importanza. Quanti morti, per quel sogno. Tanti, troppi, come quell’ immenso sacrario lassù, vicino Gorizia, dove più di 100 mila ragazzi senza nome riposano in silenzio. Erano i compagni di sventura di mio nonno, e lui spesso diceva: potevo essere anch’io lassù, mentre raccontava – me lo ricordo, proprio qui, sotto questo albero del mio giardino, una sera d’estate di trenta anni fa – della fame, di questo paese di stracci e straccioni, delle notti passate a piangere sulla branda, e poi ancora del dopo guerra, della fame, delle bombe e di quell’altra guerra, un’altra, perché le guerre sono come le canzoni, ce n’è sempre un’altra che arriva prima o poi. Sembrava una favola, e invece era la Storia, e lui non lo sapeva. Ed è la storia, e i milioni di giovani con gli occhi sbarrati in faccia al cielo azzurro, che ci hanno regalato l’Italia, quell’Italia che ama la moda, e la Ferrari, le donne più belle, e l’estate che arriva, ogni anno più calda. L’Italia che vince i mondiali, che gioca d’azzardo e che canta le canzoni. Intossicata da troppi scandali, cemento, cialtroni, adesso è smarrita, confusa, ferita. Troppi hanno dimenticato quanto sangue è stato versato, i nostri nonni che zappavano la terra sotto il suo sole accecante, i nostri fratelli d’Italia che sotto il fuoco dei cannoni ci hanno regalato il sogno di sentirci, davvero, padroni a casa nostra. Ora che tutto si smarrisce e si confonde, proprio come in un sogno di una notte di mezza estate, davanti a un buon bicchiere di vino, ripenso a mio nonno che da tanto tempo se n’è andato lassù, e chissà se guarda dalle placide stelle di questo cielo italiano. E cosa penserà, lui che non sa neppure cos’era la storia, di questi piccoli uomini senza cervello, che sputano addosso al nostro passato, al loro passato, immemori di quello che è stato. Perché forse è vero che quel sogno si è rattrappito, che l’Italia è solo un nome su una carta geografica, e che in fondo siamo tutti cittadini di questo pazzo mondo. Ma è anche vero che ognuno di noi è figlio di suo padre, di suo nonno, della sua storia. E un uomo senza storia è meno di niente. Non è neppure quel piccolo punto sperduto che adesso mi sento, io, quaggiù, pensando a mio nonno, a Goffredo, ai milioni di italiani caduti, che con gli occhi smarriti sussurrano al vento: Ricordati, Italia!
Buon tutto!

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Doveva accadere. Ed è accaduto. Davanti a un risottino, al chiaro di luna, Silvio e Umberto si sono incontrati. Silvio aveva appena finito di parlare all’Hotel Duke, ai Parioli, davanti ad altissimi esponenti del Popolo della Libertà: in prima fila c’era Brunetta, subito dietro una delle eminenze grigie della politica italiana, Iva Zanicchi, di fianco un autentico genio della politica, Elisabetta Gardini. Di fronte a una così qualificata platea, Berlusconi si è scatenato. Un discorso di altissimo profilo istituzionale, da statista. Parole forti, che vanno dritte al cuore. Parole che centrano il cuore del problema dei problemi che attanaglia milioni di italiani. La Giustizia, il vero problema dell’Italia. Bravo, Berlusconi. Meno male che Silvio c’è: da settembre, subito il ripristino dell’immunità parlamentare, subito il divieto di intercettazioni per i reati di corruzione, immediata fine dei magistrati d’assalto. Stavolta non lo ferma nessuno. E così l’Italia si solleverà dalla profonda crisi in cui è precipitata. Lo ha detto anche Iva Zanicchi, lo ha ripetuto Elisabetta Gardini, lo ha giurato Mara Carfagna: Non appena riformata la giustizia, il carovita passerà, il prezzo del petrolio tornerà ai livelli di un tempo, gli stipendi degli italiani aumenteranno. Ma purtroppo, come sempre, qualcuno si mette in mezzo nella battaglia di Silvio per la prosperità dell’Italia. E stavolta, il nemico numero uno è proprio lui. Umberto Bossi. Che, come tutti sanno, non ama l’Italia. Lui con il tricolore sapete cosa vuol farci. E manda a dire dal suo fido Calderoli, che la riforma giustizia non è una priorità. E che non va fatta contro i magistrati, ma con il dialogo. E che comunque, nell’agenda parlamentare, tempo per discutere la riforma non c’è, calendario alla mano. Anche perché, per risolvere i problemi dell’Italia, c’è da fare il vero miracolo: Il federalismo fiscale! Berlusconi, che a queste parole è stato felice come quando gli pestano ripetutamente i calli, ha subito convocato a pranzo l’Umberto. E gli ha detto queste testuali parole: Giustizia e federalismo sono i due corni della grande riforma. L’uno porta l’altro: Simul stabunt, simul cadunt (cadent, Silvio, cadent…). Simul strunzunt ha detto Umberto. Silvio allora ha usato tutte le sue arti seduttive. Se mi dai la giustizia ti do il Federalismo, l’Autonomia, la Carfagna (in comproprietà) e anche l’utilizzo di Kakà per la nazionale della Padania. Umberto però non ha ceduto. Lui si sa, è un uomo duro. Se parlo adesso succede un patratac ha detto. Neppure la Zanicchi, chiamata precipitosamente da Silvio a condurre la trattativa, è riuscita a convincerlo. Neppure cantando il suo cavallo di battaglia “La riva bianca la riva nera”. Neppure cantando l’immortale aria di Giuseppe Verdi, quella che  la mamma di Calderoli usava come ninna nanna: il Va pensiero. Non è servita neppure la minaccia sulla legge elettorale punitiva per la Lega alle europee. Bossi non molla, neppure in cambio della Carfagna. O Silvio gli dà il federalismo, o lui fa saltare il tavolo. E sarebbe un peccato, il risottino al chiaro di luna è proprio buono. E niente immunità, niente ingiustizia. L’Italia andrebbe in malora. A allora dai, Silvio: fai uno sforzino. Dà a Bossi il federalismo, dagli il codice delle Autonomie, dagli anche la Carfagna. Già che ci sei, se non se ne accorge (che è un po’ rimbambito, ma non è mica scemo), dagli anche il Brunetta e la Zanicchi, in prestito gratuito. Lui saprà dove mandarli. E sforzino per sforzino, dagli anche Kakà. E cantagli la serenissima, pardon, la serenata. Quella che a lui piace tanto, a te un po’meno, ma sforzandoti ci riuscirai. La verità ti fa male. Lo sai.

Buon tutto!

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E’ una notte stellata sul lago. Lecco dorme, sotto una coltre di calore umido. C’è una finestra illuminata nella notte. La finestra di una clinica. Un uomo guarda la strada dalla finestra. Ripensa al freddo di una notte di gennaio di tanti anni fa. Uno schianto terribile, una vita spezzata. La corsa all’ospedale. Un gravissimo trauma cranico, la frattura della seconda vertebra cervicale, la condanna quasi sicura alla paralisi totale. Ore, giorni, settimane, sospese tra paura e speranza. Poi dopo qualche mese, la rassegnazione. Da allora,  gli occhi di quella ragazza, sua figlia Eluana, si aprono e si chiudono, seguendo il ritmo del giorno e della notte, ma non possono più vedere. Eluana, le tue labbra sono scosse da un tremore continuo, braccia e gambe sono sempre tese in uno spasimo. Una cannula dal naso ti porta il nutrimento allo stomaco. Ogni mattina gli infermieri ti lavano il viso e il corpo con delle spugnature. Ti fanno un clistere per liberarti l’intestino. Ogni due ore ti girano nel letto, e una volta al giorno ti mettono su una sedia con schienale ribaltabile, stando attenti a non farti cadere in avanti. Poi di nuovo a letto. E ogni giorno scivola via, così. Da quella notte fredda di gennaio del 1992, un giorno dopo l’altro, questa è la tua vita. Una vita che non è vita, e scorre silenziosa in quella stanza d’ospedale. E passano le stagioni, le piogge sottili dell’autunno, le brume del lago, le notti di luna in cui ragazzi e ragazze fanno l’amore felici guardando il cielo. Anche il mio tempo è corso via veloce: ho conosciuto il riso e il pianto, la gioia e la disperazione. E’ il gioco di quella strana avventura senza tempo che chiamiamo vita: emozioni, visi, e pensieri. Odori e rumori tutto intorno, mentre il tuo corpo invecchia in silenzio. Tutto che passa in un lampo, come il sorriso di un bambino. E il mio pensiero va ai tuoi giorni felici di ragazza, alle tue corse, ai tuoi amori spezzati, alle gioie e ai  piccoli dolori quotidiani che riempiono di vita la nostra vita. Non lo so se in qualche modo riesci ancora a sorridere dietro quello sguardo vuoto che fa piangere chi ti ama. E non so neppure se dietro le stelle c’è qualcuno che in silenzio guarda quaggiù verso questo schizzo di terra. Non so se ci sia un senso a questo correre, soffrire, amare, o se siamo  davvero solo punti sperduti in un granello di sabbia che giocano a mosca cieca nel cuore dell’universo, girotondi senza senso e senza pace. Non lo so: non so questo e non so molto altro. La vita è proprio una strana avventura, una corsa malinconica a perdifiato in mezzo a momenti di piccola allegria, un cammino stranito intorno a gente che un po’ti ama, un po’ ti odia, un po’ non ti rivolge neppure uno sguardo. In fondo, non so bene cosa sia. Ma penso che la vita non sia solo questo cuore che batte nella notte, e neppure un viso immemore segnato dalle carezze del vento. E se qualcuno un giorno deciderà di spegnere i tuoi occhi già spenti, chiudendo i tuoi giorni senza ricordi e senza futuro, io ci sarò. Sarò accanto a quell’uomo, lì, con te. E quando tutto sarà finito, ti lascerò solo un piccolo, semplice, sorriso. Sospeso in una lacrima, resterò lì in silenzio, e ti accarezzerò le guance finalmente disetese. E non so perché, ma sono sicuro che, mentre quell’uomo che ora guarda dalla finestra lassù soffocando i singhiozzi spegnerà per l’utlima volta la luce della tua camera, scorgerò in quegli occhi muti il tuo sorriso di ragazza, sperduto in una notte fredda di gennaio di tanti anni fa. E so che sarà una bella mattina, il sole accarezzerà il tuo lago e il tuo viso sereno. Come adesso, in mezzo ai monti lontani.

Buon tutto!

Ad Eluana Englaro, con amore umano

Oggi è giorno di lodi. No, non la ridente cittadina vicino a Milano, dove si va a piedi ad incontrare la bella Gigogin. Lodi nel senso di elogi. Elogi che si ascoltano in una nuova intercettazione. Che riguarda, inutile dirlo, Silvio Berlusconi, il presidente del Consiglio. Un uomo buono e generoso, sempre ingiustamente aggredito da tanti invidiosi. Certo, anche lui ha – come tutti, in fondo (molto in fondo) è pur sempre un essere umano – un piccolo vizio, anzi un vizietto. No, non QUEL vizietto a cui avete subito pensato. E’ un altro, altrettanto gradevole: Silvio Berlusconi compone poesie e poi le canta. Lo fa in ogni occasione. Per strada, in auto, durante i vertici con i grandi della terra. Canta sempre, è quasi una mania. Non canta però davanti ai Giudici, perché quelle toghe gli fanno perdere il buonumore e perché glielo ha suggerito il suo avvocato. Ma, in tutti gli altri casi canta, eccome se canta! E telefona a Confalonieri, a Saccà, a Galliani, e declamando e canticchiando le sue poesie. E ne ha composta una, che è l’oggetto dell’intercettazione. Commovente e dolcissima: una lode dedicata a uno dei suoi ministri. Che, secondo sondaggi riservatissimi, avrebbero tutti un livello di fiducia del 2500 per cento. Gli danno tutti grandi soddisfazioni. Per questo è così felice. Ma uno, più di tutti, ha colpito il suo cuore. Ed è per questo Ministro ha composto questa lode. Non siate maliziosi: non è una lode dedicata alla Ministro Carfagna o alla Ministro Gelmini, per ringraziarle della loro brillante azione politica, svolta con grande perizia e passione nell’incarico al quale Silvio le ha destinate. E non è neppure un ringraziamento per lo stupendo lavoro che sta facendo il Ministro dell’Economia Tremonti, quello che ha presentato una nuova  tassa, da lui chiamata Robin Hood Tax mentre tutto il mondo l’ha ribattezzata la Pappagone Tax, ed che ha varato una manovra ambiziosa che galleggia allegramente in Parlamento tra sberleffi degli altri ministri e sghignazzi dei parlamentari della maggioranza. E non è neppure una lode al Ministro Maroni, che è riuscito nella brillante e non semplice impresa di far arrabbiare contemporaneamente il Vaticano, l’Unione Europea e il Gabibbo con la straordinaria trovata della schedatura dei pericolosissimi bambini Rom. Non è neppure dedicata ad altri Ministri che si stanno distinguendo per la loro incisiva azione di governo, gente in gamba, come il Ministro dell’Agricoltura Zaja, il Ministro delle Infrastrutture Matteoli, il Ministro degli Esteri Frattini ed altri, tutti invitati come ospiti fissi alla famosa trasmissione “Chi l’ha visto?” No, la poesia che Berlusconi  declama al telefono ad un interlocutore interessatissimo (si sente per tutto tempo il suo russare in sottofondo) è dedicata al Ministro della giustizia Angelino Alfano. Bravo, forse il più bravo di tutti. Silvio lo ha detto: “Io sono il più bravo: sono faccia d’Oro. Gianni Letta segue a ruota, ed è faccia d’Argento. Alfano però è il terzo, ed è una vera faccia di Bronzo”. Ed è con quella faccia che il Ministro Alfano ha ignorato i rapporti sullo stato della Giustizia, scritti dai capi dipartimento dei suoi Ministeri, facendo finta di non conoscere la situazione delle carceri, la mancanza di risorse e le carenze d’organico dei tribunali. E’ con la stessa faccia che ha presentato di concerto con il suo compare Maroni un decreto legge sulla sicurezza, scritto per difenderci dai cattivi che aggrediscono e rapinano la gente per strada, nel quale ha però inserito all’improvviso una norma – definita urgentissima, necessaria per la salvezza della nazione (che è il secondo nome di battesimo di Silvio Berlusconi) – per sospendere buona parte dei processi per quegli stessi reati commessi negli ultimi dieci anni. Con la stessa faccia l’ha poi stralciata in un batter d’occhio (non era più urgentissima?) presentando un altro disegno di legge, quello che protegge dalla magistratura solo le più alte cariche dello Stato (che è il terzo nome di battesimo di Silvio Berlusconi). Che uomo! Un vero Angelo! Tanta dedizione, tanto impegno, tanta incredibile cialtroneria non può lasciare insensibile un uomo buono e generoso come il nostro Presidente del Consiglio. Per questo gli ha scritto questa ode, che declama al telefono mentre il suo ignoto ascoltatore sonnecchia attentissimo. Sembra quasi di udirlo, anzi, io lo Odo. Lodo Alfano.
Buon tutto!

Buone notizie. La sinistra si sta riprendendo: la riscossa è già cominciata. Berlusconi e i suoi, incominciate a tremare! Dopo la grande opposizione del Partito democratico, che riscuote successi crescenti di giorno in giorno, ed è ormai arrivato a sfiorare il 100 per cento dei dissensi, c’è un’altra forza che, dopo il trionfo delle ultime elezioni, è pronta per darvi il colpo di grazia: il partito della Rifondazione Comunista, che terrà il 27 e il 28 luglio il suo congresso, a Chianciano Terme. In vista dell’imminente trionfo, il partito affila le armi per la battaglia definitiva. La affronta con il coltello tra i denti, fra attacchi furibondi e scontri senza esclusione di colpi. Non contro la politica del governo, naturalmente. Quello è un trascurabile dettaglio. La lotta è quella tra le diverse mozioni in gara, è la guerra per la leadership del partito, per chi guiderà alla soluzione finale la sinistra italiana. La lotta appassionante tra la mozione “Chi vota per me peste lo colga”, contrapposta a quella “Perder l’elezione”. Poche possibilità sembra avere invece la mozione “Se mi voti non vale”, mentre sta recuperando consensi la mozione “Meno siamo meglio stiamo”. Al centro dello scontro, due figure di riferimento della sinistra mondiale, due che al loro passaggio si inchinano Marx, Lenin, Che Guevara e pure Pippo: Paolo Ferrero, il Ministro dei Rocher, e Nichi Vendola, il governatore della Puglia. Una guerra all’ultimo voto. Tutti contro tutti, tessera contro tessera. Per questa lotta su chi dovrà guidare il più grande partito della sinistra mondiale, si sono scatenati istinti da guerra delle correnti di democristiana memoria. Dall’una e dall’altra parte, partono accuse su accuse. Non alla politica del Governo Berlusconi. Ma a chi volete che interessino queste stupidaggini? No, l’oggetto del contendere, in questa sagra del democristiano, sono insinuazioni sulle rispettive abitudini sessuali, accuse di collusione con la mafia, insulti personali, ecc.. Ma l’accusa più infamante, rigurda la presenza di troppi nuovi iscritti alle riunioni: un congresso annullato a Reggio Calabria, uno minacciato di invalidamento a Bologna, una guerra dei conteggi a Roma, e tutto questo mentre è in atto una campagna  delegittimazione di tutti, o quasi, i congressi locali. In effetti, a pensarci bene, niente è più grave per un partito di sinistra che gode di ottima salute e di crescenti consensi, che accettare nuovi elettori e meno che mai nuovi militanti: è contrario alla storia della sinistra, al suo DNA. Siamo solo noi, i più puliti, i più veri e i più duri i più puri. Bisognerebbe metterlo nella carta fondante del partito: chiunque provi a portare un nuovo iscritto è un traditore del popolo. Non si sa mai, di questo passo potremmo diventare maggioranza, e la vera sinistra non può correre certi rischi, che faremmo dopo? Per scongiurare il pericolo, l’ordine per i militanti di Rifondazione è di andare di casa in casa, di fabbrica in fabbrica, invitando la gente arrabbiata a iscriversi alla Lega Nord, a AN, addirittura anche all’UDC: non si può mai stare tranquilli. Vade retro, elettori! sarà la parola d’ordine. Intanto, la guerra tra Ferrero e Vendola proseguirà, fino all’appuntamento finale a Chianciano Terme, che è anche una nota stazione termale, famosa per le sua acqua lassativa. Un  congresso innovativo, che non discuterà di questioni vecchie e poco interessanti come i bassi salari, i diritti civili negati, e altre stupidaggini. Il Congresso sarà una grande kermesse, un reality show, dal titolo: Alla fine ne resterà soltanto uno. Di elettore, naturalmente. Non ci si è ancora messi d’accordo sulle regole della gara, se elettori e simpatizzanti saranno cacciati facendogli vedere tutte le performance artistiche di Luxuria o  tutti gli interventi di Bertinotti a Porta a Porta, ma un accordo si troverà. Così, gli organismi dirigenti del partito, sbrigata la pratica,  potranno tornare ad occuparsi di raccogliere i bisogni della gente. Per aiutarli in questo immane compito, che li vede così duramente impegnati, dovremmo andare in tanti, a Chianciano, e bere litri di acqua curativa. Poi, diligentemente, raccogliere i nostri bisogni, e tirarli in faccia a tutti coloro che stanno seduti sul palco. Non sappiamo se servirebbe a svegliarli. Ma provare non costa niente.
Buon tutto!

Questa è la storia di Roberto Maroni, detto Bobo, il sassofono più intelligente del Lago maggiore.Bobo era un bravo ragazzo, e se ne andava in giro suonando per le campagne del varesotto antichi canti celtici come “Ta pum” “ Oh mia bela madunina” e “Il canto del merlo”. Unico vezzo esotico, un duetto con il suo grande amico Umberto Bossi, “I’ so o’pazzo” di Pino Daniele, noto cantante africano. Bobo era bravo, e non gli importava che tra Busto Arsizio, Saronno, e Laveno Mombello tutti lo chiamassero il suonato: sapeva che era solo un simpatico vezzeggiativo celtico. E poi, si consolava pensando che Roberto Calderoli veniva chiamato “il genio di Bergamo” in tutta la Val Brembana, quindi non c’era da offendersi. Erano inseparabili, Umberto e Bobo. Stavano sempre insieme: alla sagra del piccolo creti di Rancio Valcuvia, alla festa del pirla di Cadrezzate, dappertutto. E sempre insieme scesero dalle valli del varesotto alla conquista di Roma. A Umberto piaceva praticare un antico sport celtico con Borghezio, con il quale faceva a randellate sul lungo Tevere, ma Bobo, più sensibile, intristiva nella città eterna, finendo per passare quei lunghi pomeriggi caldi a fare la pennichella nei corridoi della Camera. Ma, proprio quando stava per tornare alla sua amata musica, e già si vedeva compositore nelle brume di Gallarate di nuovi successi internazionali come “Varese o’ cara” e “La mucca Carolina non mi vuole più”, Umberto gli ordinò di fare il Ministro dell’Interno, quello che si occupa di polizia. Gli disse Umberto: “La musica deve cambiare! Bobo, è il tuo momento!” Il nostro Bobo, riluttante, disse : “Obbedisco!” come Garibaldi per l’unità d’Italia, beccandosi due manganellate da Borghezio, che era allergico a Garibaldi. Partì per il Viminale, sperando di trovare un orchestra di sassofoni, ma si ritrovò in un palazzo pieno di tromboni e non sapeva che fare. Finchè, gli venne una grande idea. Un grande concerto in favore dei Rom, quei poveri zingarelli che tanto gli ricordavano le sue scampagnate musicali a Gemonio, a Tradate, a Viggiù, dove la gente gli rivolgeva, sentendolo suonare il suo sax per strada, un antico augurio padano “Va a lavurà, barbun!” Mentre studiava l’esecuzione rimodernata di Violino Tzigano che voleva dedicare a tutti i bimbi rumeni, tra un schedatura e l’altra, fu preso a male parole dal Vaticano. D’altronde, cosa poteva aspettarsi dalla Chiesa di Roma? Il direttore di Famiglia Cristiana era arrabbiatissimo perché avrebbe voluto che suonasse il “Te deum” mentre Bobo insisteva per il “Io pirla”. Lo accusò di ogni nefandezza, ma lui – con lo sprezzo del pericolo che solo le piccole vedette lombarde hanno – non indietreggiò di un millimetro. Anche se il prefetto di Roma, Carlo Mosca, si rifiutava di autorizzare il concerto, anche se il presidente del Veneto, parlava di fantapolitica, ma solo perché voleva che il concerto fosse aperto dalla famosa canzone “La biondina in Gondoleta”. Ma Bobo non si faceva intimidire neppure dai rimproveri dell’Unione europea, che voleva che nel concerto fosse inserita anche un’esecuzione della Marsigliese. Anzi, Bobo era così convinto della bontà della sua idea, e pensò di replicare il concerto anche nella vera capitale del suo cuore: Milano. E scelse per il posto una bella zona, dalle parti di Viale Janner. Pazienza se questo significava spianare una Moschea, a lui le moschee avevano sempre dato fastidio, specie d’estate, quando ti ronzano appiccicose svolazzandoti intorno. Non si aspettava la reazione della curia milanese, che sperava di vedute aperte. Tutta la situazione stava esasperando il povero Bobo, che finì per cedere. Prese il sassofono, lo mise in testa, brontolando che tutta questa storia sapeva di grottesco, e disse a Umberto che lo guardava amorevolmente: “Umberto, torno a suonare il sassofono. Io mi sono rotto i maroni!”
Se le interessa, caro Ministro, anche noi. E sono passati solo 2 mesi.
Buon tutto!

L’Italia è in fibrillazione. Anzi in emergenza. Il Presidente del Consiglio è sull’orlo (forse, ben oltre l’orlo) di una crisi di nervi. I palazzi del potere tremano. Ci vogliono provvedimenti speciali, forse non è escluso, come nelle dittature che si rispettino, il coprifuoco. Come sanno tutti, questo can can è stato provocato dalla presunta esistenza di intercettazioni esplosive, che potrebbero cambiare il corso della storia. E’ tutto un rincorrersi di illazioni, sussurri, ammiccamenti. Bene, cari 36 piccoli lettori  dello scarabocchio (ormai ridotti a 24, forse anche a 12): noi siamo venuti in possesso di queste clamorose conversazioni, grazie al tabaccaio di Ferro di Cavallo, che come certo sapete è la nostra preziosa e riservatissima fonte d’informazione. Ce le ha portate, in un caldo pomeriggio all’ombra di una quercia. Le abbiamo ascoltate, con il cuore in gola, disturbati solo dal cantare delle cicale. E ora, a mente fresca (insomma, si fa per dire) possiamo dirvi che sono davvero una bomba. Roba da far crollare le istituzioni democratiche. E’ comprensibilissimo che il Presidente del Consiglio stia facendo il possibile e l’impossibile, il decente e l’indecente, pur di non farle diventare di dominio pubblico. La sua immagine ne uscirebbe davvero distrutta. Diciamolo subito: non si tratta, come dicono le malelingue, di piccanti conversazioni, nel corso della quali scopriamo che il nostro Presidente trattava future Ministre della Repubblica come il Presidente USA Clinton trattava Monica Lewinsky. Intanto perché sicuramente è falso, e poi, se fosse vero, sarebbe una baggianata: forse il grande amore che il nostro capo del governo ha per gli Stati Uniti, che lo ha fatto studiare come si comporta un vero Presidente. Ma che cosa volete che sia, sono sciocchezze che solo in paesi incivili e di scarso spessore democratico come gli USA, la Gran Bretagna o la Germania potrebbero provocare la fine della carriera politica di un leader. Ma in Italia, no: noi siamo un paese civile, moderno, il paese di Alessandro Borgia e di sua figlia Lucrezia, e di sciocchezze come etica, morale, decenza non sappiamo davvero che farcene. Le conversazioni che abbiamo ascoltato, che alcuni attribuirebbero ad un certo Silvio B. e un certo Agostino S. e che tanto fanno penare il Presidente del Consiglio sono molto più gravi. Immonde. Vergognose. Una in particolare. Non dovremmo rivelarla ma, per rispetto della nostra deontologia e della privacy, sfidando le querele e forse la prigione, ve la riveliamo:
 
Agostino
: Signor Presidente, allora quella ragazza di cui le parlavo, la metto nella trasmissione del pomeriggio?
Silvio: Ma dico, scherza? Lo sa che io non faccio queste cose! Si rivolga al produttore, al regista, al capostruttura RAI. Le faranno un provino, assieme a tutte le altre e, se è brava come dice, la prenderanno.
Agostino: Va bene Presidente, farò come dice lei. Ah, un’ultima cosa. Appena ci togliamo di mezzo quel Romano lì, potremo tornare a farci un po’gli affari nostri?
Silvio: Cribbio, Agostino! Lei è un dipendente del servizio pubblico! Si contenga!
Agostino: Ma io credevo…
Silvio: Ma come glielo devo dire? Glielo ho detto almeno un milione di volte! Si ricordi: Io penso solo al bene del mio paese. E’ questo il mio unico pensiero. Il mio unico interesse!

Adesso che il mistero è svelato, si capisce il perché di tutto questo parapiglia. Vi rendete conto che incredibile rivelazione è contenuta in queste intercettazioni?  Ci pensate che rivoluzione ci sarebbe, se tutti gli italiani conoscessero questa conversazione?

Buon tutto!

C’era una volta, in un paese lontano lontano, quello che passerà alla storia dell’umanità come il migliore governo del mondo. Uomini e donne di grande sagacia e intelligenza, di elevata statura intellettuale e di alte qualità morali. In mezzo a loro, un ministro svettava sopra tutti. Riusciva a fare ombra persino al capo del governo. Questo Ministro si chiamava – che domande! – Renato Brunetta. Per via delle sue enormi capacità, era stato messo in uno dei ministeri più importanti. Un posto chiave, per il quale avevano litigato pazzi da novanta come Brontolo, Eolo, Gongolo. Alla fine, erano rimasti in lizza Pisolo e Brunetta. E vinse, naturalmente, il più sveglio dei due: Pisolo, che finì nella favola di Biancaneve. Renatolo invece, grazie alla promessa da Silviolo – che aveva tanti difetti, ma era un uomo d’onore – fu sistemato in un incarico degno di lui: il Ministero della Funzione Pubblica. Talmente importante che Cucciolo non lo volle occupare. Ma il nostro piccolo Renato, che tutti chiamavano Renatino, sapeva che non conta dove sei, ma è importante elevarsi sopra gli altri in qualsiasi cosa sei chiamato a fare, se la fai. E lui si mise d’impegno, decidendo di rivoluzionare la Pubblica Amministrazione italiana. Che, ne aveva davvero bisogno. Così, pensa che ti ripensa, varò un pacchetto di misure con il modesto obiettivo di far diventare la Pubblica Amministrazione in Italia efficiente, trasparente, meritocratica. Una favola, un compito gigantesco, ma che a lui sembrò facile come scalare uno sgabello. E detto fatto, varò in pochi giorni nientepopodimeno che un “piano industriale per la PA”, che non solo avrebbe resa efficiente in un nanosecondo (forse anche meno) l’attività degli uffici pubblici, ma che avrebbe reso l’Italia più bella, più superba, più alta, più tutto. E avrebbe fatto risparmiare, secondo Renatino, circa 20 miliardi di euro all’anno allo Stato. Chissà perché, si chiedevano tutti, nessuno ci aveva mai pensato, se era così facile. Tutti erano felici ed erano già pronti per fare a Renatino un monumento. Alcuni decisero di piantare un bonsai gigante, alto 70 centimetri, davanti agli uffici del Ministro. Ma come in tutte le favole che si rispettino, ecco arrivare la strega cattiva: Giulio Tremonti che, quando si trattò di scrivere nero su bianco i risparmi del Piano di Renatino, che tutti iniziavano già a chiamare Pianino, stimò i risparmi promessi dal nostro Brunettolo pari a zero. Puf, svaniti come la scarpetta di Cenerentola a mezzanotte. Il nostro piccolo, povero Ministro era disperato, non tanto per la mancata realizzazione degli alti obiettivi che si era posto: erano favolosi, anzi proprio una favola, e alle favole ormai non ci crede più nessuno. La  ragione era che Renatino s’era preso un impegno con i suoi elettori e le sue elettrici: se in un anno non fosse riuscito a realizzare quanto promesso, rivoluzionando la Pubblica Amministrazione, si sarebbe dimesso. No, non pensate che la disperazione dipendesse dal fatto che Renatino avesse paura di perdere la poltrona: era un uomo così disinteressato che si era mantenuto comunque il posto da parlamentare, nonostante i rimproveri del suo stesso partito. No: la disperazione per l’alto funzionario, per l’elevato Ministro della Funzione Pubblica dipendeva dal fatto che se si fosse dimesso dopo un anno, sarebbe passato alla storia come il Ministro più breve della Repubblica Italiana. E questo, il povero Piccolo Renato, non lo riusciva proprio a sopportare. Nelle favole, si sa, alla fine tutti vivono felici e contenti.
Buon tutto!
Questo post è frutto tra l’altro di 2 splendide giornate veneziane, trascorse in compagnia di amici carissimi. Un sorriso speciale per loro.

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